domenica 7 marzo 2010

LA STRADA

«Assassini!» urla il folle.
«Cacchio, già le otto!», invece sono ancora le sei.
Si è svegliato prima e ha deciso di portarsi avanti con il lavoro. Tutte le mattine ci da la sveglia, affacciandosi al balcone e benedicendo la comunità con il suo personale saluto, come un muezzin dal minareto. Gli siamo affezionati, ha conquistato il perdono di tutti quelli che abitano in questa strada.
La strada è una specie di paese, perché vissuta come un prolungamento dei cortili delle case. Già dalla mattina, lungo il marciapiede, spunta qualche sedia a cui se n’aggiungono altre durante il giorno, tanto che il marciapiede alla fine sembra una scacchiera.
I due punti di raggruppamento sono in chiara concorrenza tra loro. Si trattano con cortesia e rispetto apparente ma in realtà sono due compagini che si dividono lo stesso terreno, pronte entrambe a fare fuoco al primo sgarro, al primo sguardo allusivo, alla prima parola equivoca. Il malinteso era sempre in agguato e, in fondo, anche cercato. Niente di meglio di una bella litigata per sfogare ansie e paure.
Nei punti in cui si formano questi raduni spontanei, si celebra il sacro rito della condivisione, soprattutto quello dei cacchi altrui. Il forestiero che si trova a passare da quelle parti è scrutato con sospetto, studiato per capirne le intenzioni. L’altro giorno, mentre entravo in casa, ho visto una donna suonare al citofono di fronte e il vicino uscire e fermarsi a chiacchierare con lei. Sono uscito dopo una decina di minuti e mi sono accorto che tutti i vicini erano affacciati alla finestra con gli occhi puntati su di loro. Sembravano condor in attesa di sbranare una carcassa. La malcapitata, terminata la strada, deve aver avuto la sensazione di aver appena fatto una lastra, non immaginando che sarebbe stata argomento tra gli argomenti della prossima adunata.
Io non mi impiccio di solito. C’è solo un momento che non mi perdo mai: l’apparizione della vicina, una ragazza ucraina, che con questa calura estiva ogni giorno si dà appuntamento davanti al tubo di gomma. Una doccia in giardino in reggiseno e perizoma. Per lei è talmente naturale che se la canticchia pure. Io invece rimango per un quarto d’ora a pulire la stessa finestra. Mezz’ora dopo è sul balcone a stendere la biancheria, poco più vestita, e mi tocca pulire anche la finestra di fronte. Qualcuno, solo per questo, potrebbe pensare che io sia un buon partito da sposare.
Oggi il pensionato spazza il cortile davanti ai garage e raccoglie 14 viti piccole, 2 grandi, 16 rondelle, 4 chiodi, 6 bulloni e 3 graffette arrugginite; le mette in fila e urla nell’etere che potrebbero bucare una ruota. Poi si trasferisce vicino ai cassonetti per pulire l’immondizia straripata dalle buste, abbandonate in malo modo, e urla nuovamente di imparare a fare la raccolta differenziata. Nessuno risponde mai.
Stasera, mentre le sedie di plastica e le sdraio di tela rientrano nelle rispettive abitazioni, quattro ragazze vicine di casa, tutte separate, si dirigono verso una macchina parcheggiata. Parlano a voce alta, anche se sono a meno di un metro l’una dall’altra. Ci tengono davvero che tutta la strada sappia quello che faranno questa sera. Vogliono provare un nuovo locale di tendenza appena aperto sulla spiaggia, con il pavimento di legno, tende pesanti, di quelle che creano intimità, musica a palla, cuscini a terra e incensi vari. Praticamente potresti essere in qualunque posto della terra, tanto il mare non si vede e non si sente. I figli sono stati affidati a nonni, televisori e playstation, non necessariamente in quest’ordine. I padri, questi strani inevitabili incidenti, orbitano intorno agli affari loro e non possono essere presi in considerazione. Quella che guida ci tiene a specificare che da poco se lo è ripreso in casa, dopo la seconda separazione, ma che adesso, quasi quasi, l’ha stufata un’altra volta e lo caccerà di nuovo.
Le pareti delle case sono sottili, si sente tutto, ma proprio tutto. Le liti, come le riappacificazioni sono patrimonio comune. Più le liti però. L’altro giorno lei chiedeva i soldi a lui, che ha cominciato ad alzare la voce. Non capiva perché fosse necessario spendere tutti quei soldi per il figlio. Era il loro regalo di maturità per il ragazzo, uscito col massimo dei voti, aveva spiegato lei.
«’Sti cazzi, ha fatto il suo dovere» aveva risposto lui.
Quello di sopra litiga con quello del terzo piano perché il cane abbaia. Quello del primo piano litiga con quella del secondo perché usa le ciabatte con i tacchetti alle sei del mattino. Ogni tanto qualcuno prova ad alzare la voce anche con me, nascosto nel suo appartamentino, perché sanno che può essere pericoloso prendersela con una montagna di muscoli. Non mi conoscono abbastanza. Vengo dalla Romania e la gente qui mi chiama Cezar. Non è il mio vero nome, quello è rimasto al mio paese insieme a vecchie storie, l’inferno che ho voluto lasciarmi alle spalle. Pochi sono gli amici. Per vivere e mandare un po’ di soldi ai miei, faccio tutti i lavori che posso.
La donna che dorme nel mio letto si chiama Loretta è italiana e fa l’estetista, ha un negozio qui nel quartiere. Tempo fa andai da lei perché volevo cancellare due tatuaggi, uno sul braccio ed uno sulla gamba. Lei si è offerta di farmi anche la ceretta, dicendo che gli uomini con i peli sulle spalle perdono metà del loro fascino.
Dalla sua piccola tivù mi ha mostrato gli atleti dei mondiali di nuoto.
«Guarda che fisici, neanche un pelo. Ma te li immagini con la schiena coperta di peluria?».
No, non me li immaginavo. In realtà non ci avevo mai pensato. Mica sono un campione di nuoto.
«Ahi! Ma che fai?».
«Rilassati, ecco guarda qua, non li avevi mai notati eh? Ma non preoccuparti ora togliamo tutto, puliamo per bene. Vedrai alla fine anche tu non potrai credere ai tuoi occhi».
Più che non credere ai miei occhi, ho guardato i suoi: gli occhi neri e profondi di una bella donna. Adesso è la mia donna.
Ha deciso di curare il mio aspetto, piccole cose: una camicia a tinta unita piuttosto che a quadri, il giubbotto marrone piuttosto che blu con righe bianche sulle maniche, niente più berretto di lana e calzini bianchi.
Ha combinato qualcosa anche alle mie sopracciglia e ora la gente non si scansa più come prima. E, forse, questo un po’ mi dispiace.
Fa molto caldo stanotte e abbiamo lasciato tutte le finestre aperte. Bacio la spalla liscia e profumata della mia donna che dorme tranquilla e mi alzo, tanto non riesco a chiudere occhio. Mi metto comodo sulla sedia a sdraio che entra a stento sul balconcino e mi godo il fresco e l'umidità notturna, il buio, il silenzio... Penso al mio paese e alla mia nuova vita: non è ancora tempo per fare bilanci. Quasi ci starebbe bene una sigaretta, ma ho smesso e, mentre penso agli affari miei – o anche a nulla – vedo il cane della vicina, quel coso peloso e antipatico, frugare nella siepe... e la cosa mi incuriosisce, anche se non so perché.
Mentre rientravo per cena ho colto una conversazione tra i vicini. Parlavano del folle dal buongiorno assassino. Qualcosa a proposito di dosi aumentate, ma inutilmente, famigliari assenti. Ho sentito parlare di casa di cura, d’ospedale psichiatrico. Poi frasi bisbigliate quando si sono accorte di me. Le ho fissate prima di rispondere freddamente al loro”buonasera” troppo acuto per essere sincero. Me lo aspettavo da tempo. Da domani dovrò mettere la sveglia.

4 commenti:

  1. parzialmente soddisfatto
    passo la palla a daniela... :)

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  2. guarda io ci metterò qualche giorno, quindi se vuoi fare altre correzioni fai pure. concessione perchè sei stato fuori...:)

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  3. Gira che ti 'raggira', ormai la pera è matura...

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  4. I contenuti sono stati inseriti tutti e anche tutti i possibili 'posporre' mi sembra siano stati effettuati. Vuoi vedere che alla fine torneremo alla versione originale?
    :-)

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